B. GALUPPI, JEPHTE ET HELCANA Dialogus sacer (Revisione: Franco Piva)

Baldassarre GALUPPI, JEPHTE ET HELCANA Dialogus sacer (Revisione: Franco Piva)

Il manoscritto autografo del ‘Dialogus sacer’, di 94 pagine, proviene dalla Biblioteca Nazionale di Parigi (Ms. 1887 – R. 52.023); è generalmente abbastanza chiaro, nonostante la grafia tremolante e incerta e le numerose cancellature.

Nella revisione ho scrupolosamente rispettato tutte le indicazioni dell’autore; ho necessariamente apportato le seguenti modifiche e integrazioni: a) sono state definite tutte le legature e le indicazioni dinamiche; b) sono stati interpretati i passaggi cancellati o macchiati; c) sono stati tradotti i segni grafici; d) sono stati ridistribuiti gli organici secondo la prassi moderna; e) sono stati corretti alcuni errori e sono state apportate quelle integrazioni risultate necessarie in relazione a corrispondenti omissioni; f) le parti di Helcana e di Jephte, originariamente in chiave di Soprano, sono state trascritte in chiave di Sol; g) è stato realizzato il Basso continuo; h) sono state composte le Cadenze per l’Aria di Helcana e per l’Aria di Jephte.

 La prima esecuzione del ‘Dialogus sacer’, composto su libretto di Pietro Chiari, ha avuto luogo a Venezia, agli Incurabili, nel 1771, ricorrendo la festività della Trasfigurazione di Cristo (8 agosto).

 L’Ouverture, in un solo Movimento e in due parti perfettamente simmetriche, è costruita su tre elementi: l’arpeggio discendente di semiminime, al quale risponde un arpeggio ascendente spezzato con uno Sforzato sul terzo tempo della battuta; un breve frammento “galante”, affidato (nella revisione) ai Soli; un Crescendo importante. Sono presenti, quindi, oltre allo spirito maestoso e severo che contraddistingue tutto il lavoro, alcuni aspetti caratterizzanti dei due personaggi: l’arpeggio discendente di semiminime recepisce l’atteggiamento espressivo di Jephte nel Sum quasi leo per valles, articolato proprio sull’arpeggio discendente di semiminime dell’accordo perfetto maggiore, mentre il secondo elemento anticipa nello spirito, preannunciando la contrapposizione, l’impostazione stilistica ed espressiva dell’Aria di Helcana; il Crescendo, poi, riassume il dialettico rapporto fra i due personaggi. E’ opportuno sottolineare il fatto, importante e significativo, che l’Ouverture, non generica, contiene, sia pure soltanto in modo allusivo, elementi presenti e sviluppati poi in tutto il lavoro.

Il primo Recitativo, inizialmente Obbligato e poi secco, è un dialogo fra padre (Jephte) e figlia (Helcana) piuttosto drammatico nel contenuto, ma molto compassato e severo dal punto di vista musicale, come se i sentimenti umani dovessero essere espressi soltanto all’interno di un equilibrio “ambientale” mai disturbato dalle tensioni di origine profana.

L’Aria di Helcana, con il “Da capo”, è musicalmente tutta Galante: all’interno della asetticità di questo stile, Helcana fa una decisa manifestazione di fede, definita prima dall’intervallo ascendente di Ottava con la successiva ricaduta sulla Quinta (‘Tu mia spes / Tu mia salus’) e poi dall’intervallo di terza  (‘Dextra excelsa’).

Al breve Recitativo secco seguente (‘Oh Deus tanto dolori’) segue un interessante e intenso Recitativo Obbligato di Jephte, che precede l’Aria ‘Sum quasi leo per valles’.

E’ questa un’Aria, anch’essa con il “Da capo”, di straordinaria intensità e varietà di situazioni espressive, che nascono dall’alternanza dei due aspetti costitutivi del complesso brano: il primo (‘Sum quasi leo per valles’) è caratterizzato da una forte drammaticità, maestosa e aggressiva, sottolineata dal disegno di biscrome degli archi; il secondo (‘Tu velut agna errando’) presenta, con una discorsività dolce e dolente, una serie di appoggiature cromatiche della voce e dei violini primi, in dialogo, sopra la base sostanzialmente immobile degli altri archi. In corrispondenza delle due contrapposte situazioni Galuppi non indica alcun cambiamento di Tempo: a me è sembrato necessario e inevitabile far coincidere con la seconda  un Tempo più lento del precedente (potremmo dire che si tratta di due diverse significazioni del termine ‘Allegro’ segnato dal Buranello all’inizio dell’Aria). I vocalizzi del Soprano possono appartenere alternativamente all’una o all’altra delle due situazioni. Il passaggio dalla prima alla seconda è netto, quasi sempre comunque dopo una breve corona; in un caso è efficacemente sottolineato da una inattesa transizione al Minore. Di particolare intensità è la seconda parte dell’Aria, caratterizzata soprattutto dalla lunga sequenza di ‘Sforzati’, esplicitamente indicati tutte le volte nel manoscritto, sulla nota di volta superiore: la tensione si scioglie poi nel bellissimo ‘Crescendo’ che chiude questa seconda parte.

Le Arie di Helcana e di Jephte sono, quindi, molto diverse per stile e per ambiti espressivi e questa forte diversità è l’estrinsecazione, anzi la “rappresentazione”, del carattere e dei sentimenti dei due personaggi ed evidenzia due mondi espressivi contrapposti, che si confrontano e si fondono nell’ultimo Recitativo Obbligato e nel Duetto finale.

 La struttura complessiva di questo che un po’ impropriamente potremo chiamare Oratorio è molto sapiente: anticipazione della contrapposizione, con una discorsività necessariamente diversa, nell’Ouverture ( i due “Chori” insieme); presentazione separata di ciascuno dei due mondi contrapposti nell’ Aria di Helcana  (“Choro primo”) e in quella di Jephte (“Choro secondo”); accostamento dialettico nel Recitativo Obbligato ‘Pater, ego per valles’ e fusione nel Duetto (i due “Chori” insieme). La struttura narrativa coincide con la struttura “rappresentativa”.

L’uso della tecnica policorale non è suggerita in alcun modo dal libretto: è una scelta stilistica di Galuppi, scelta che risponde alla sua esigenza di attribuire all’insieme una chiara dimensione rappresentativa, attenuata e smorzata all’interno di un ambiente  severo; e la policoralità, in questo caso, è l’unico mezzo “rappresentativo” concesso, trattandosi di un soggetto religioso e di una struttura di tipo oratoriale.

E non è che questa scelta tradisca e deformi lo spirito religioso: la compostezza del particolare “ambiente” attutisce le punte espressive derivanti naturalmente dalla estrinsecazione dei sentimenti; come nei Recitativi Obbligati, dove gli interventi strumentali sono incisivi ma molto controllati e hanno spesso il senso della preghiera e della meditazione, e nel Duetto, dove l’intensa dolcezza diventa astratta e, quindi, umana e religiosa insieme.

 La policoralità può essere considerata come una forma, originariamente religiosa, di “rappresentazione”, perché presuppone una spazialità e un dialogo fra due o più entità collocate in zone diverse dello spazio. Quello che questa policoralità  può “rappresentare” è l’enfasi, la pienezza, la maestosità, il coinvolgimento più largo, una presenza più dilatata e quindi più avvertita. Corrisponde, dunque, alla necessità di esaltare e di coinvolgere; ma senza antagonismi: in piena e lineare complementarietà, con un dialogo sereno, intenso e pacifico. La struttura policorale diventa un mezzo espressivo per “rappresentare” due mondi diversi ma convergenti.

L’idea della policoralità come “contrappunto di situazioni” è del tutto nuova: nel Dialogus è realizzata soltanto sul piano orizzontale, e cioè in successione, e quando i due mondi si sovrappongono diventano complementari. Il titolo stesso è significativo in questo senso: si tratta di un Dialogo, come prevede lo stile policorale, ma di un Dialogo sacro, e cioè inserito in un ambiente di religiosa severità dove i sentimenti sono autorizzati ma non possono rompere con intemperanze l’equilibrio e la compostezza della sacralità.

Ancora una volta è verificabile una felice invenzione di materiali musicali diversi. Galuppi non ha mai copiato testualmente se stesso, ed è questo un fatto piuttosto raro, nonostante la straordinaria vastità e varietà della produzione: ciò significa che ogni volta c’è stata, come in questo caso, una ricerca diversa e un reale e convinto approfondimento di ogni singola situazione, con la conseguente invenzione dei materiali più idonei a “rappresentare” ciascuna specifica situazione. E’ vero: ci sono molte formule comuni a buona parte degli autori del Secolo; ma intanto queste formule in Galuppi sono sempre finalizzate alla valorizzazione di aspetti espressivi differenziati e quindi con funzioni diverse (non sono, cioè, astratte e generiche presenze sonore applicabili indifferentemente anche ad altre situazioni); e poi molte sono o reinventate o del tutto nuove o discorsivamente collegate in modo originale o relativamente originale. Non è, comunque, che la reinvenzione o l’invenzione siano dovute a uno spirito innovatore: sono direttamente legate alla necessità, istintivamente e onestamente sentita, di approfondire, appunto con “onestà”, ogni singolo aspetto e di attribuire a ciascuno, avvertito come effettivamente o almeno parzialmente diverso dagli altri, quei materiali che più coerentemente lo potessero “rappresentare”.

Si tratta di una ricerca svolta in completa autonomia. Non che Galuppi non fosse aggiornato: conosceva tutto quello che un compositore affermato e “onesto” non poteva non conoscere. Ma la sua ricerca è sempre racchiusa entro limiti personalissimi, che delimitano uno spazio tutt’altro che ristretto ma che escludono automaticamente ogni “avventura” non coerente con il suo venezianissimo spirito. E’ arrivato, in ogni caso, abbastanza lontano, seguendo la sua strada; la sua evoluzione stilistica, attraverso quasi tutto il Settecento, porta spesso ad esiti che sono assai vicini a quelli degli autori più noti e più “importanti”.

Il ‘Dialogus sacer’ è stato registrato in prima mondiale nel giugno 2001 nella Villa Pisani di Montebelluna con l’orchestra Filarmonia Veneta ‘G.Francesco Malipiero’ diretta da Franco Piva per la casa discografica ‘Rialto’ di Venezia.

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IL FILOSOFO DI CAMPAGNA di Baldassarre Galuppi (Revisione: Franco Piva)

IL FILOSOFO DI CAMPAGNA di B. Galuppi (revisione: Franco Piva)

‘Il Filosofo di campagna’ è l’Opera giocosa più nota del Galuppi e fino al 1978 (anno della prima moderna de Il mondo alla roversa) era quasi l’unica rappresentata in tempi recenti (con le eccezioni de ‘L’Amante di tutte’ e de ‘La Diavolessa’, riprese rispettivamente dall’Accademia Chigiana e dal Teatro La Fenice). La spiegazione è semplice: da un lato l’incredibile noncuranza dei musicologi e dei musicisti che, a parte due vecchie tesi di laurea (Chiuminatto negli USA e Raabe in Germania) e qualche saggio del Torrefranca e del Piovano, non si sono mai veramente preoccupati di fare almeno qualche organica verifica sulla ricchissima e vastissima produzione teatrale del Buranello, in particolare di quella collegata alla collaborazione con il Goldoni; dall’altro, la prima sorprendente riscoperta fatta è stata, appunto, quella de ‘Il Filosofo di campagna’. Il guaio è che la prima rivisitazione risulta oggi davvero sconcertante: senza entrare in troppi dettagli, basterà dire che i personaggi previsti erano cinque anziché sette (con il conseguente taglio delle Arie e dei Recitativi dei due personaggi tolti), che gli Atti erano due anziché tre, che alcune delle Arie allora eseguite risultano totalmente estranee al libretto goldoniano. Per parecchi anni questa versione pseudogaluppiana e pseudogoldoniana è stata studiata, eseguita, rappresentata, ascoltata e accolta come se fosse autentica: al contrario, rispetto ai più elementari principi filologici e musicologici, non è altro che un falso clamoroso.

Per la ricostruzione della partitura originale, non avendo la possibilità di rintracciare l’autografo, mi sono appoggiato a un manoscritto proveniente dal British Museum di Londra, che risulta totalmente fedele, parola per parola, al libretto goldoniano.

Il manoscritto contiene un gran numero di errori, dovuti a interpretazioni inesatte dell’autografo, all’imperizia e all’impreparazione del copista. Il lavoro più impegnativo della mia revisione, oltre alla correzione degli errori del copista, ha riguardato la definizione delle legature. Si tratta di un problema di importanza fondamentale, perché legature diverse possono cambiare in modo sostanziale il senso espressivo di un frammento e quindi di un intero brano. Una quartina di crome, per esempio (lo stesso discorso può riguardare le semiminime e le semicrome) può avere nessuna legatura o ben sei tipi di legature: a 4, a 3 (1-3 / 2-4), a 2 (1/2 – 2/3 – 3/4); le note non legate, poi, possono essere staccate o separate in vari modi.

In assenza di qualunque indicazione nel manoscritto, i criteri per la definizione delle legature possono essere diversi: il carattere dell’intervento musicale in relazione con il personaggio e la situazione; il rapporto fra il disegno melodico e la parola o le parole corrispondenti; la presenza di un particolare elemento musicale che non può non essere adeguatamente sottolineato; la necessità di evidenziare in modo adeguato un particolare accento agogico della frase.

Ovviamente le indicazioni del revisore sono tutte fra parentesi: nascono comunque da una attenta e approfondita analisi sia del rapporto stabilito nella partitura fra testo e musica sia del significato dell’articolazione degli interventi musicali.
Franco Piva
                                                                                           

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I Frammenti dell’Ernani di Vincenzo Bellini (Revisione: Franco Piva)

 

I Frammenti dell’Ernani di  Vincenzo Bellini (Revisione: Franco Piva)

“L’Hernani mi piace assai, e piace parimenti alla Pasta ed a Romani, ed a quanti l’hanno letto: nei primi di settembre mi metto al lavoro.”

Con queste parole scritte nella lettera del 15 luglio 1830, Bellini informa l’editore Guglielmo Cottrau di avere già scelto il soggetto della nuova opera che dovrà comporre per il Teatro Carcano di Milano.

Nel giugno dello stesso anno, il ventinovenne compositore (dopo essere guarito dalla tremenda “febbre infiamatoria gastrica biliosa”, manifestatasi il 21 del mese precedente) sceglie di passare la convalescenza sul lago di Como nella villa Passalacqua, ospite delle famiglie Cantù e Turina che avevano preso in affitto quella principesca dimora.

Durante quella felice estate, Bellini si sarebbe spesso recato anche a Blevio, dove l’eletta cantatrice Giuditta Pasta, nella sua lussuosa villa ‘La Roda’, radunava la migliore società milanese che ivi villeggiava: un cenacolo esclusivo animato da artisti, musicisti e letterati, tra i quali non poteva mancare il poeta genovese Felice Romani, il maggiore librettista dell’epoca, legato ormai al compositore da un duraturo e proficuo sodalizio che aveva già prodotto ‘Il pirata’ (1827), ‘La straniera’ e ‘Zaira’ (1829), ‘I Capuleti e i Montecchi’ (1830), e che produrrà ancora ‘La sonnambula’ e ‘Norma’ (1831) e ‘Beatrice di Tenda’ (1833).

In questo clima di vacanza, di mondanità, ma anche di stimolante riflessione, Bellini con Romani e la Pasta (che ne doveva essere l’interprete) si dedica in bella intesa al progetto del futuro melodramma.

L’attenzione cade sul dramma in cinque atti ”Hernani ou l’honneur castillan (‘Ernani ovvero l’onore castigliano’), che a Parigi – sin dalla prima turbolenta rappresentazione alla Comédie-Francaise, avvenuta giovedì 25 febbraio 1830 – aveva acceso enormi polemiche, deflagrate con violenza dal momento in cui nei versi alessandrini di Victor Hugo trasparente era l’atto d’accusa del Romanticismo nascente contro l’ancien régime. Una denuncia palese avverso ‘classicisti’ e ‘monarchici’ è invero la vicenda ‘noir’ dell’eroe giovane e maledetto, costretto a lottare contro gli aristocratici ‘viellards’.

Ancora più esplicita è la provocatoria prefazione al testo, vero e proprio manifesto letterario dell’opposizione liberale. Nel sancire anzi un sacrosanto quanto ineludibile nesso tra arte e politica, l’autore afferma senza mezzi termini: “la liberté littéraire est fille de la liberté politique”. Hernani scatena così un vero e proprio putiferio, una tempestosa querelle tra l’opposizione classica e la gioventù romantica degli atelier, laddove le questioni estetiche si fondevano strettissimamente con quelle civili, sociali e politiche.

I disordini di piazza originati dalla pièce sono perciò il diretto e non casuale antecedente di quanto doveva accadere il 27 luglio, quando lungo le vie della capitale francese, per tre giorni e tre notti, si sollevano tumulti popolari che costringono il reazionario Carlo X ad abdicare in favore del moderato Luigi Filippo d’Orléans.

Insieme al furore della ‘Rivoluzione di Luglio’, l’eco della ‘bataille’ di ‘Hernani’ da Parigi dilaga in tutta Europa: ne restano affascinati anche Bellini e l’ambiente artistico e culturale in cui egli opera.

Nella prima decade di settembre, il compositore rientra definitivamente a Milano.

Da una lettera inviata all’amico torinese Augusto Lamperi, sappiamo che fino al 17 novembre il progetto di mettere in musica il dramma hughiano è ancora ben fermo, tanto è vero che Bellini lamenta di non aver ancora ricevuto i versi da Romani, ma il ‘suo’ poeta è impegnato anche nella stesura del libretto di ‘Anna Bolena’ per Donizetti.

Purtroppo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, la corrispondenza belliniana da quest’ultima lettera s’interrompe fino a quella fatidica del 3 gennaio 1831, in cui apprendiamo dallo stesso musicista il cambiamento di rotta da ‘Ernani’ alla ‘Sonnambula’, della quale afferma di aver ‘principiato’ l’introduzione il giorno precedente.

L’incolmabile vuoto epistolare è fonte di reale difficoltà, in quanto non ci permette di ricostruire con esattezza sia la gestazione di ‘Ernani’, sia la causa che determinò il cambiamento del soggetto.

In mancanza di altre fonti è giocoforza rifarsi alla citata testimonianza dello stesso Bellini, il quale, a cosa fatta, scrive il 3 gennaio a Giovanni Battista Perucchini: “…Sapete che non scrivo più l’Ernani perché il soggetto doveva soffrire qualche modificazione per via della polizia, e quindi Romani per non compromettersi l’ha abbandonato, ed ora scrivo la Sonnambula ossia I due fidanzati svizzeri”.

Evidentemente la censura austriaca, trattandosi di un soggetto così turbolento, avrà posto o ventilato il veto al librettista (14 anni dopo, anche Verdi e Piave dovettero faticare non poco affinché la loro versione operistica del dramma francese potesse andare in scena alla Fenice di Venezia il 9 marzo 1844).

Dei superstiti abbozzi pervenutici (alcuni infatti sono andati dispersi), solo una parte risulta completa; molti sono redatti unicamente nella linea del canto, mentre qua e là si rinvengono soltanto schizzi strumentali.

Una dettagliata analisi di questi frammenti è descritta, con dovizia di particolari, dal maestro Franco Piva che ha curato fedelmente e intelligentemente la non facile realizzazione del lavoro di ricostruzione.

                                                                           Domenico De Meo

I FRAMMENTI
I Frammenti dell’Ernani di Vincenzo Bellini, custoditi presso il Museo belliniano di Catania, constano di complessive 74 grandi pagine pentagrammate: la 40, la 68 e la 74 sono completamente vuote; la 69 e la 70 contengono indicazioni verbali e musicali delle quali risulta praticamente impossibile stabilire la provenienza, la collocazione e la destinazione; la pagina 14 contiene soltanto l’accordo conclusivo del crescendo delle ultime due battute di pag. 13; la pagina 34 presenta l’inizio (6 battute e un quarto, oltre la prima vuota) della parte dei soprani di un brano corale; la pagina 44, a parte la prima e l’ultima battuta, è tutta tagliata.

Le prime tre battute della pagina 1, secondo la numerazione attribuita, sono la conclusione di un brano o di un appunto precedente evidentemente perduto. Il primo frammento, per noi, inizia quindi alla quarta battuta della stessa pagina, dopo la doppia linea che chiude l’episodio non pervenuto.

L’organico e la disposizione degli strumenti, che rimangono sempre gli stessi quando l’orchestra è completa, si desumono dalle indicazioni successive; nell’ordine, dall’alto in basso: violini primi, violini secondi, viole, flauti (due righi), oboi (un rigo), clarinetti in Si b (un rigo), corni (due righi), trombe (un rigo), tromboni (due righi), fagotti (un rigo), timpani, voci, violoncelli, contrabbassi.

Si tratta di un Recitativo Obbligato, che precede il Duetto Ernani/Elvira (Frammento secondo). Le voci sono tre; in ordine di partitura: Ines (mezzosoprano), Elvira (soprano), Ernani (soprano).

La partitura del secondo Frammento non presenta particolari problemi di lettura: le due voci (Elvira, Ernani) e tutti gli strumenti, nell’ordine precisato precedentemente, sono indicati in modo inequivocabile. Alla pagina 10, attraverso i righi dell’orchestra, è scritto: “Lo strum.le come alle lettere a-d” (?). Nella prima parte del Frammento, però, non appare alcuna lettera: questo fatto, comunque, non crea problemi, dal momento che tutta la ‘risposta’ di Elvira è completamente ‘positiva’ e cioè identica alla ‘proposta’ di Ernani: la ricostruzione, quindi, delle parti strumentali diventa automatica.

Il terzo Frammento segue direttamente il secondo senza, sembra, alcuna soluzione di continuità. Alla pagina 25 è abbozzata (3 battute) una prima versione, tagliata, dell’episodio seguente con le parole “Chi sei tu? Che fai? Che…” e con l’inciso, poi sviluppato nell’ultima battuta della stessa pagina, affidato soltanto ai fagotti. Alla pagina 32 la Cadenza di Ernani termina su un nuovo Movimento (Più allegro), di cui, però, rimangono soltanto le prime due battute; alla pagina 33, infatti, comincia un breve episodio in Si b Maggiore (Recitativo), con i soli archi (quarto Frammento), che sembra non concluso ma che, d’altra parte, non si collega né alla pagina 34, dove appare, come abbiamo detto, l’inizio di un brano corale, né alla pagina successiva, dove il nuovo (?) brano è in Do Maggiore (quinto Frammento). Poiché fra il quarto e il quinto Frammento esiste una chiara affinità di carattere espressivo, è possibile formulare l’ipotesi, avvalorata anche dal fatto che all’inizio del quarto sono indicati gli stessi due personaggi che sono protagonisti del quinto, che il quarto sia un primo tentativo (non cancellato perché ritenuto comunque soddisfacente e forse mantenuto come una possibile riserva da utilizzare altrove) poi ripreso su basi diverse e portato a compimento nel quinto.

E’ abbastanza difficile anche soltanto descrivere il sesto Frammento: è il più lontano dal progetto iniziale e precede di poco la rinuncia. A parte la brevissima introduzione strumentale e qualche rado appunto successivo, sono rimaste soltanto le parti vocali. Senza contare le pagine vuote e le due ‘spurie’, consta di ben 33 fogli e il loro coordinamento, con un minimo di logica musicale complessiva, è risultato piuttosto complesso e delicato.

Il settimo Frammento (Allegro risoluto) prevede l’intera orchestra e i personaggi di Ines e Don Carlo: rimangono soltanto l’intervento dei contrabbassi e due piccoli incisi del flauto e dei violini primi. Nonostante questo vuoto, non si può non sottolineare il particolare interesse di questo breve appunto: se è da considerarsi normale la modulazione nei contrabbassi da Do Maggiore a La bemolle Maggiore, risultano abbastanza ‘strane’, essendo così isolate e scoperte, le note assegnate al flauto e ai violini primi e, in particolare, assumono dal punto di vista espressivo un colore e un sapore relativamente inusuali soprattutto se messe in relazione con le situazioni precedenti.

Dopo questo Allegro risoluto, Bellini prevedeva un Lento assai; ma a questo punto, evidentemente, l’interesse per questo soggetto è venuto meno definitivamente.

LA REVISIONE E L’INTERPRETAZIONE
Va innanzitutto precisato il fatto che, nonostante la situazione del manoscritto nella sua globalità e nei singoli frammenti potesse facilmente prestarsi a interventi di vario tipo, ho ritenuto imprescindibile rispettare integralmente il testo, in ogni suo dettaglio, per poterlo presentare e valorizzare nella sua interezza come un documento raro e preziosissimo. Proprio questo principio, tuttavia, mi ha creato in non pochi casi problemi abbastanza delicati e le soluzioni che non potevo non adottare hanno comportato e comportano specifiche responsabilità. Non si trattava, infatti, soltanto di ‘trascrivere’ correttamente, con rigorosi criteri filologici, un inedito: il compito era, in particolare, anche quello di far rivivere un manoscritto del tutto diverso da un ‘normale’ documento, trattandosi in questo caso niente di più di una serie di frammenti di un lavoro soltanto progettato, e anche parzialmente. E’ noto quanta responsabilità si deve assumere il revisore, dovendo rivisitare e restaurare un documento in vista della sua esecuzione o rappresentazione, quando si tratta di definire e interpretare situazioni incerte o incomplete o confuse; ma se il documento è completo, esiste nel documento stesso una logica complessiva, poetico-musicale-drammaturgica, che sicuramente può creare condizioni favorevoli per risolvere problemi altrimenti non facilmente definibili. Ma in questo caso il documento non ha alcuna compiutezza da nessun punto di vista e viene meno, quindi, anche quello che talvolta può diventare un punto di riferimento fondamentale.

Nel Recitativo che precede il Duetto (pp. 1-6) manca l’indicazione del Tempo (ma, data la relativa concitazione della situazione, è sembrato ovvio prevedere un Allegro) e mancano spesso le indicazioni dinamiche negli accordi che commentano il testo: l’attribuzione di un p o di un f all’uno o all’altro degli interventi strumentali ha costituito qualche volta un problema sia perché l’incompletezza del testo non consentiva con sufficiente sicurezza l’una o l’altra interpretazione, sia per il fatto che, in qualche caso, l’una e l’altra avrebbero avuto una valida giustificazione.

In questo primo frammento si è presentato anche un altro problema delicato: alla terza battuta di p. 4 Bellini ha scritto Lento assai; fino alla fine del Frammento, e cioè per 34 pagine, non viene indicata nessuna variazione di Tempo; trattandosi, però, di un Recitativo e dal momento che il testo nel corso di queste 34 battute presenta situazioni molto differenziate, non è pensabile che possa rimanere valida fino alla fine questa indicazione. Per definire le inevitabili variazioni di Tempo l’unico riferimento possibile non poteva che essere il testo.

Il secondo Frammento (Duetto Elvira-Ernani) non porta alcuna indicazione di Tempo; la decisione di stabilire un Largo è nata da alcune considerazioni concomitanti e complementari: il Tempo in 6/8, il Più mosso della seconda parte e il carattere espressivo dell’intero brano; il Più mosso, poi, (in una situazione espressiva come questa non può diventare ‘Allegro’), inteso come una relativa intensificazione della velocità del Tempo iniziale, determina inevitabilmente un precedente Tempo lento come riferimento.

Nell’ Allegro maestoso del terzo Frammento (b. 27, p. 26) non compare all’inizio alcuna indicazione dinamica; ma il pizzicato dei violoncelli e dei contrabbassi e, nel corso del brano, le indicazioni ‘Solo’ (p. 29: bb. 44, 45, 49) e ‘pp’ (b.35, p. 27; b. 39, p. 28), rendono obbligatoria per l’inizio la scelta di un colore tenue, anche se l’aggettivo ‘maestoso’ potrebbe far sembrare coerente un colore più forte (ma credo si tratterebbe in questo caso di una interpretazione superficiale e retorica).

Come si è detto, è probabile che il quarto Frammento (‘Recitativo / Andante’), di complessive 13 battute soltanto, sia un primo appunto non completo, ripreso, in modo non sostanzialmente diverso, sviluppato e completato nel Frammento successivo in un’altra tonalità, sempre comunque con lo stesso organico (2 voci, archi). Ho ritenuto in ogni caso riportare anche queste tredici battute perché, anche se fosse giusta la mia ipotesi, risulta comunque interessante mettere a confronto le due situazioni.

Il quinto Frammento è completo e chiaro; manca all’inizio l’indicazione del tempo, ma, coerentemente con l’ipotesi formulata in precedenza, ho posto ‘Andante’.

Le legature segnate qui e in altre pagine del manoscritto sono da intendere non tanto come arcate, ma come manifestazione di una intenzione espressiva che riguarda tutte le frasi coinvolte. La precisazione delle articolazioni costituisce, quindi, un problema assai delicato: nella attribuzione delle arcate ho tenuto conto esclusivamente dei comportamenti del discorso musicale e della loro funzione espressiva.

Su ciascuno degli accordi che accompagnano questo ‘Recitativo’, Bellini ha posto con chiarezza l’indicazione dinamica voluta; indicazione che, invece, manca negli episodi strumentali.

La conclusione di questo Frammento rimane sospesa: è da escludere, per motivi armonici e anche per il fatto che il testo non conclude, un collegamento diretto con l’inizio del Frammento sesto: ho preferito comunque  lasciare le cose come si presentano nel manoscritto, e cioè senza soluzione sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista letterario.

Il sesto Frammento è il più problematico. Nell’impostazione della partitura sono indicati, oltre a tutti gli strumenti, Elvira, Ernani, Carlo; nelle pagine pervenute cantano soltanto Elvira e Carlo. Dalla pagina 37 alla pagina 39 Don Carlo esegue il primo ‘Meco regna’; segue una cadenza, affidata ai violini primi; riprende poi (pp. 42-44) una nuova versione del ‘Meco regna’, con varianti, come se fosse un Da capo oppure una seconda possibilità alternativa alla prima. Dopo una cadenza di Don Carlo e un breve intervento strumentale (l’una e l’altro tagliati), risponde Elvira con il primo ‘Amo un altro’, a cui segue l’inizio del concitato dialogo, poi interrotto, fra Elvira e Don Carlo. Alla pagina seguente si trova una cadenza simile a quella apparsa dopo il primo ‘Meco regna’, ma più corta e semplificata; dopo questa cadenza ritorna il ‘Meco regna’ di Don Carlo in una versione, con varianti, quasi identica alla precedente; risponde di nuovo Elvira con un nuovo ‘Amo un altro’, con varianti rispetto al primo e con una cadenza conclusiva diversa; riprende, quindi, il dialogo concitato (‘Allegro agitato’), che si conclude (‘Lento’) con le due voci insieme.

Il primo problema nasce da questo dubbio: le due versioni di ‘Meco regna’ e di ‘Amo un altro’ sono alternative o complementari? Poiché non c’è alcun elemento oggettivo a favore dell’una o dell’altra possibilità, qualunque considerazione potrebbe essere sostenibile: ma quella che potrebbe eventualmente dimostrare l’alternatività comporterebbe automaticamente l’abbandono di una parte comunque importante del documento. Credo, dunque, che l’unica scelta oggettivamente valida sia stata quella di riportare il manoscritto nella sua interezza. In altri casi Bellini ha mostrato chiaramente il cambiamento dell’intenzione oppure ha lasciato il frammento incompiuto: qui non appare nessun pentimento, a meno che non si voglia intendere la ripetizione come un secondo tentativo destinato a sostituire il primo: ma in questo senso, ripeto, non appare alcuna indicazione. All’inizio di questo sesto Frammento non c’è alcuna indicazione di Tempo, ma sopra la seconda cadenza che precede la seconda versione del ‘Meco regna’ è segnato ‘And.te assai sost.to’; poiché la seconda non è che una variante della prima, così come le due versioni di Elvira sono varianti di quelle di Don Carlo, non essendoci d’altra parte indicazioni diverse fino all’ ‘Allegro agitato’, ho ritenuto giustificato attribuire all’intera prima parte l’ ‘Andante assai sostenuto’ indicato da Bellini.

Dopo l’Ouverture – nell’insieme molto compassata, un po’ rossiniana e abbastanza generica (sicuramente scritta prima dei Frammenti e quindi solo parzialmente aderente, anche per l’assenza di una visione completa dell’Opera) – si compie un viaggio, breve ma affascinante e intenso, in un mondo virtuale, sospeso nel vuoto, nel quale si leggono i ‘segni’ di un’idea drammaturgia e musicale che riflette senza mediazioni gli impulsi suggeriti dal testo. Se la pregnanza di questi ‘segni’ ci fa rimpiangere quello che manca, non possiamo non vibrare di commossa partecipazione per quello che ci resta.

                                                                                                          Franco Piva

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