LA ROMANZIERA E L’UOMO NERO di Gaetano Donizetti (revisione: Franco Piva)

GAETANO DONIZETTI
LA ROMANZIEREA E L’UOMO NERO (Revisione: Franco Piva)

LA VICENDA
Idea dell’azione

Il Conte ha una figlia, Antonina, zitella e romanziera, e una nipote, Chiarina, giovane e sbarazzina.
Antonina rifiuta il partito che il padre le propone: Carlino, figlio del fattore Tommaso, impiegato di banca. D’altra parte Carlino non ama Antonina, ma ama invece Chiarina, la quale pensa a tutt’altro.
Antonina scrive un suo romanzo: l’Uomo Nero, il cui protagonista è l’eroe romantico che la romanziera vorrebbe per sé.
Filidoro, nobile spiantato, si finge coiffeur per entrare in casa del Conte e rivedere Antonina, che sarebbe per lui un ottimo partito. Lei vorrebbe fuggire con lui, vivere nei boschi, solitaria e ispirata; ma lui ha altri progetti; finge di stare al gioco e poi la lascia.
Chiarina, dal Conte destinata al suo amico Fedele, non più giovanissimo, è in realtà interessata a Nicola, nipote di Tommaso, un agronomo piuttosto noioso. Questi, però, vorrebbe una donna più posata di quanto Chiarina non sia. Tommaso le insegna come conquistare il cuore di Nicola. Questi spia la lezione di seduzione, ma cade dal nascondiglio e finisce nella carbonaia, dalla quale emerge tutto nero. E’ l’Uomo Nero, e spaventa Chiarina. Intanto la ragazza declina la sua filosofia a morosa a Filidoro, che pende dalle sue labbra.
Antonina e Nicola, che si finge momentaneamente un eroe romantico, progettano una fuga, non senza dimenticare alcuni gioielli. Tommaso e Trappolina li aiutano nei preparativi. La fuga viene scoperta. Antonina chiede perdono: d’ora in poi non penserà più né a romanzi né a fughe.
Il padre perdona e dichiara di essere stato in gioventù un parrucchiere. Anche Filidoro si svela: egli è il Conte Calamai.
Ma intanto Antonina ha deciso: nonostante lo scarso interesse per la sua attività di bancario, sposerà Carlino. Il Conte, già parrucchiere, e Filidoro, parrucchiere per amore, la pettineranno insieme per le nozze.

“Un ‘Serio’ Scherzoso”, di Michelangelo Zurletti
E’ difficile che un testo vada completamente perduto, soprattutto nel caso di un’Opera buffa più volte rappresentata. La perdita di un testo è di solito parziale e consente un lavoro di restauro e di completamento di quel che resta. Nel caso de ‘La Romanziera e l’Uomo nero’ la perdita delle parti parlate è totale. Quelle parti dovevano essere anche abbastanza lunghe, com’era tipico del ‘Vaudeville’, non foss’altro per consentire alle parti cantate di avere un senso teatrale. Il Recitativo secco dell’Opera buffa è una cosa, la recitazione dell’Opéra-comique un’altra; altra cosa ancora la commedia che si fa spazio tra i numeri musicali d un ‘Vaudeville’.
Tanto per citare il problema principale, mi trovavo con un ‘Vaudeville’ che nel titolo citava una ‘Romanziera e un Uomo nero’ che nei testi cantati non compaiono mai, non solo per citazione diretta ma neppure per allusione. Per di più, nel Rondò finale due protagonisti rimandano alla loro professione di parrucchieri senza che mai prima vi avessero accennato, e uno di questi è il Conte: e la sua condizione, soprattutto in teatro e in particolare nel ‘Vaudeville’, tende a ignorare professioni così materiali. Ancora: i numeri musicali sono tutti logicamente sganciati uno dall’altro e passano allegramente di palo in frasca.
Non restava che frugare nei lavori di Scribe, alla ricerca, se non del testo perduto, di analogie utilizzabili. Uno di questi, suggeritomi da Sabina Pozzi, “L’homme noir”, presenta sì un personaggio che appare anche nel nostro titolo ma in un contesto non recuperabile. Si accenna anche a un’attività di scrittura, ma è affidata a un giovanotto e non a una signora, e per di più si tratta di un commediografo, non di un romanziere. Un altro, “Le coiffeur et le perruquier”, parla di quelle benemerite attività, ma con personaggi che non potevano essere ospitati nell’Opera di Donizetti.
Bisognava, dunque, inventare e cercare di cucire in qualche modo le situazioni: tenendo comunque presenti i due lavori di Scribe. Da questi derivano molte battute del nuovo testo, ora trasportate direttamente, ora adattate, ora camuffate.
Ho ritenuto anche di dover avvicinare il testo al pubblico al quale è destinato. Se i nomi dei personaggi di Scribe sono stati italianizzati da Donizetti, ho voluto regionalizzare anche la loro attività e perfino accostare la loro vita al destinatario rodigino.
Come si può intuire, il mio è stato un lavoro esattamente contrario a quello dei filologi e anzi perfettamente arbitrario. Non lontano, comunque, da quel gusto per la ‘parodia’, per il travestimento delle situazioni, per il furto delle idee che animava la pittoresca attività dei commediografi e dei librettisti.

Un po’ di storia, di Sabina Pozzi
Gaetano Donizetti, dopo il successo milanese dell’ ‘Anna Bolena’ (Teatro Carcano, 26 dicembre 1830), nel febbraio del 1831 passa per Roma (dove i teatri sono chiusi a seguito dei moti rivoluzionari che coinvolgevano lo Stato pontificio) e torna a Napoli per onorare il contratto con l’impresario-principe Domenico Barbaja, contratto con il quale si impegnava a comporre 12 Opere nuove nell’arco di 3 anni, dietro compenso di 200 ducati mensili, e assumeva la direzione dei Reali Teatri per 50 scudi al mese.
La primavera e l’estate di quell’anno vengono dunque trascorsi nella rapida stesura di tre lavori a carattere buffo: c’è la semiseria ‘Francesca di Foix’, prevista per il San Carlo il 30 maggio in occasione dell’onomastico del re Ferdinando II di Borbone, e c’è ‘La Romanziera e l’uomo nero’ che va in scena al Teatro del Fondo il 18 giugno.
Per entrambi i lavori il testo è di Domenico Gilardoni, il librettista con cui Donizetti collaborerà nei suoi quattro anni di più intensa attività. Con Gilardoni, suo coetaneo, Donizetti instaura un rapporto di collaborazione diretta venendo così in contatto, grazie al librettista, con la spettacolarità e i meccanismi di un certo teatro popolare francese (e proprio francesi saranno le fonti del libretto della Romanziera). I successi e il progresso nella carriera che ottiene in quegli anni sono ascrivibili in parte anche ai meriti dei libretti del Gilardoni, di certo più felici degli sgangherati testi di Leone Andrea Tittola e di Giovanni Schmidt.
Il terzo lavoro in programma è ‘Fausta’ (Teatro San Carlo, 12 gennaio 1832), che rimane però incompiuta per l’improvvisa e prematura scomparsa del librettista: Donizetti provvederà a completare di sua mano il terzo Atto.
Per il libretto della Romanziera Gilardoni trae spunto da due commedie andate in scena a Parigi rispettivamente nel 1820 e nel 1824: si tratta de “L’Homme noir” di Eugène Scribe e Jean-Henry Dupin e di “Le coiffeur et le perruquier” sempre di Scribe in collaborazione con Mazères e Saint Laurent. Su queste fonti inventa un divertissement pienamente calato nel contesta della querelle italiana fra classici e romantici. Un libretto che, inserito nel filone della satira delle fantasticherie sentimental-romantiche allora tanto alla moda, ruota attorno al mondo astrattamente poetico della giovane Antonina che sogna il proprio ideale di vita accanto ad un inesistente ‘uomo nero’, l’uomo del mistero, secondo le notturnali proposte romantiche. E naturalmente il suo compagno ideale non può essere quel Carlino, impiegato di banca, che il Conte suo padre vuole darle come sposo. Alla fine la fanciulla, presa in giro dai suoi stessi conoscenti, deve ammettere che la poesia non coincide con la realtà e rinuncia alle evasioni romantiche per tornare ad occupazioni più consone e ad un prevedibile matrimonio.
Donizetti si trovò ad utilizzare per il pur breve ed esile intreccio pseudo-sentimentale una consistente ed ottima compagnia di canto: vi figuravano – tra i 3 soprani, 2 tenori, 3 beassi, un buffo, oltre al solito servitore – cantanti del calibro di Luigia Boccabadati (Antonina), Antonio Tamburini (Filidoro), Gennaro Luzio (Tommaso) e Marietta Gioia Tamburini (Chiarina). Pingue compagnia che determinò quasi una sorta di appesantimento della mobilità scenica della vicenda, nonostante le agili e caricaturali risorse rossiniane a cui Donizetti ancora ricorse.
Rossini, infatti, è chiaramente presente come oggetto di parodia: in particolare con la canzone del gondoliere del suo ‘Otello’. Oltre a ciò Donizetti ricorse ad una sorta di autoparodia utilizzando per la Romanziera alcuni brani della partitura di una sua Opera seria precedentemente scritta sempre da Gilardoni, ‘Il Paria’ (Teatro San Carlo, 12 gennaio 1829): in particolare la melodia del quartetto conclusivo de ‘Il Paria’ è impiegata nella parte di Antonina nel terzetto “Dopo tante e tante pene” che precede il Rondò finale. Una consuetudine, questa dell’autocitazione, giustificata anche dai ristrettissimi tempi che intercorrevano tra la composizione di un’Opera e l’altra.
Fu proprio l’adagiarsi un po’ pigro al formulario d’uso, cui Donizetti finì appunto per rivolgersi, a determinare l’accoglienza cordiale ma non entusiastica de ‘La romanziera e l’uomo nero’; rappresentata, infatti, il 18 giugno del 1831, venne sostituita, dopo l’unica replica del 20, con ‘Il ventaglio’ di Pietro Raimondi su libretto del solito Gilardoni. L’impresario Barbaja la tolse di scena vista la relativa fortuna.

La partitura e la revisione di Franco Piva
Posso capire perché ”La Romanziera e l’uomo nero non abbia avuto allora successo: si trtta di un lavoro ‘equivoco’ e complesso, due caratteristiche che certamente non favoriscono l’immediatezza e l’efficacia del rapporto con il pubblico di un’Opera che vuole essere ‘comica’
E’ ‘equivoco’ perché non è decisamente e chiaramente caratterizzato in senso buffo, cioè con una vicenda ben definita, con tutti gli ingredienti dell’Opera buffa tradizionale e con una precisa impostazione e articolazione drammaturgia e musicale in questa direzione; è ‘complesso’, perché è pieno di reminiscenze e di invenzioni, le une e le altre presentate ed elaborate con una impostazione prevalentemente contrappuntistica (i sette numeri prevedono la partecipazione sempre di più solisti). Sicuramente la forte dimensione contrappuntistica contribuisce in modo decisivo a ‘intorbidire’ la normale presentazione di situazioni e di vicende.
Ad accrescere l’equivocità c’è poi la figura di Antonina, la romanziera, la quale crede veramente, sino alla fine, a quello che pensa e che prova, determinando situazioni ‘serie’ di intensa espressività romantica.
E c’è, infine, la decisa rossinianità dell’Opera.
Credo che la forzata rapidità della composizione sia diventata, in queta caso come i altri, un forte stimolo: Donizetti, infatti, è stato costretto a sfruttare e a mettere insieme tutte le sue reminiscenze e, quando non bastavano, a inventare, con felicissime intuizioni, che più tardi riprenderà (per esempio, ne ‘L’Elisir d’amore’), qualche nuova situazione. Ne è uscito un concentrato di formule vecchie e nuove dello stile giocoso e di quello comico, arricchito, però, da una conduzione quasi sempre intensamente contrappuntistica (bene appresa nei 62 esercizi dal 1815 1l 1817).

Di quest’Opera esistono alla Biblioteca del Conservatorio di Napoli due partiture manoscritte: una autografa, dal n. 1 (senza Preludio) al n. 6, l’altra di un copista, con un brevissimo Preludio e un Rondò finale (n. 7). Esiste, inoltre, una versione stampata per canto e pianoforte.
Non si può non domandarsi: come mai esistono due partiture manoscritte e addirittura uno spartito stampato di un’Opera che ha avuto soltanto due rappresentazioni? E come mai nel manoscritto del copista esistono un Preludio e un Rondò finale del tutto assenti nell’autografo?
Per spiegare l’esistenza delle due partiture l’ipotesi più verosimile può essere la seguente: l’autografo è molto difficilmente utilizzabile per l’esecuzione (è pieno, infatti, di abbreviazioni, richiami, tagli e indicazioni sommarie: soltanto l’autore poteva orientarsi con la necessaria sicurezza) ed era quindi indispensabile che un diligente copista ‘traducesse’ con chiarezza le indicazioni dell’autore (forse la ‘prima’ è stata diretta dallo stesso Donizetti, mentre era previsto che le repliche venissero dirette da un altro, magari dall’estensore del secondo manoscritto). Il Preludio è stato sicuramente inserito dal copista: l’autografo, infatti, inizia direttamente con l’introduzione del n. 1; in quanto al Rondò finale, ritengo, dato che nell’autografo la conclusione dell’Opera rimane aperta, che Donizetti abbia consegnato al suo collaboratore gli appunti per l’ossatura del pezzo, affidandogli il compito della realizzazione completa della partitura (in quest’ultimo brano le melodie, che sono sicuramente donizettiane, sono sostenute da un’orchestrazione soltanto essenziale).
Mentre, quindi, è inequivocabile il fatto che il Preludio non è stato previsto da Donizetti, l’assenza nell’autografo del Rondò finale quasi sicuramente può essere considerata una conseguenza della fretta, anche se non si può dire con certezza che dovesse comunque essere previsto per la conclusione dell’Opera.
Pertanto, nella mia revisione, ho tolto il Preludio e ho inserito il n. 7.

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DIDONE ABBANDONATA di Baldassarre Galuppi (revisione: Franco Piva)

DIDONE ABBANDONATA di B. Galuppi (revisione: Franco Piva)

LA PARTITURA
Di Metastasio, oltre alla Didone, Galuppi ha musicato i seguenti libretti: Issipile (1738), Alessandro nell’ Indie (1738), Adriano in Siria (1740), Antigono (1746), L’Olimpiade (1747), Demetrio (1748), Artaserse (1749), Semiramide riconosciuta (1749), Demofoonte (1749), L’eroe cinese (1753), Siroe (1754), Ezio (1757), Ipermestra (1758), Il re pastore (1758), La clemenza di Tito (1760), Viriate (1762).

‘Didone abbandonata’ fu rappresentata la prima volta al teatro ‘Molza’ di Modena nel 1741. Ne furono interpreti Barbara Stabili (Didone), Sante Barbieri (Enea), Giuditta Fabiani (Selene), Filippo Laschi (Jarba), Romoaldo Grassi (Araspe), Caterina Castelli (Osmida).

Ebbe repliche a Madrid (Teatro del Buen Retiro, 23 settembre 1752), Firenze (teatro in via della Pergola, carnevale 1753), Venezia (teatro di S. Benedetto, carnevale 1765), Genova (teatro di Corte, carnevale 1765), San Pietroburgo (teatro di Corte, 20 maggio 1766).

La Didone è la diciassettesima Opera seria del Buranello: dal ’41 al ’66 ha composto e rappresentato in buona parte d’Europa  molte altre Opere serie e molte Opere giocose. Come mai, per presentare se stesso a San Pietroburgo, appunto nel 1766, Galuppi ha scelto proprio la Didone abbandonata e non un’altra Opera seria o una delle Opere giocose che avevano riscosso ovunque grandi consensi?

Per poter dare una risposta oggettivamente valida dovremmo conoscere tutte le sue Opere serie e anche le eventuali condizioni poste al suo invito a San Pietroburgo; ma la produzione seria del Buranello è tuttora in massima parte sconosciuta e, d’altra parte, non si hanno notizie di particolari limiti imposti o suggeriti dalla Zarina. Dato, poi, che gli organici strumentali e quelli vocali sono più o meno simili in tutte le Opere – a parte l’eventuale presenza del Coro -, possiamo soltanto formulare l’ipotesi che Galuppi, avendo presente l’importanza e la delicatezza dell’incarico ricevuto, abbia escluso a priori i drammi giocosi rappresentando essi, nello stile e nei contenuti, direttamente la tradizione veneziana e abbia invece considerato la Didone particolarmente significativa – dal punto di vista letterario, drammaturgico e musicale – sia nell’ambito della sua produzione sia nei confronti dello stile italiano in generale.

E, in effetti, si tratta di una partitura caratterizzata da una puntuale  ricerca della estrinsecazione dei forti e intensi valori drammatici del libretto: ci sono, inevitabilmente, gli stilemi settecenteschi, comunque ripresentati sempre in modo non astratto ma efficacemente funzionale; ma ci sono anche molte invenzioni pure, in alcuni casi sorprendenti per la loro novità e per la loro aderenza drammaturgica. Anche se il Metastasio non era di questo parere (ma il suo mucisista preferito era Adolf Hasse!), penso si possa affermare – e questa, assieme all’importanza del testo e alla intensità drammatica dell’argomento, può essere la giustificazione della scelta del Buranello – che alla felicità e alla intensità degli esiti letterari corrisponde la felicità e l’intensità di quelli musicali.

IL MANOSCRITTO E LA SUA ‘INTERPRETAZIONE’

Il manoscritto, opera di tre copisti diversi, sul quale è stata realizzata la revisione, proviene dalla Biblioteca del Conservatorio di Napoli e consta di complessive pp. 634.

Le prime 190 sono state scritte su fogli pentagrammati già utilizzati e quindi con sovrapposizioni spesso difficilmente decifrabili.

Particolarmente problematica è risultata non poche volte la corretta lettura e interpretazione dei Recitativi soprattutto per le numerose battute inesatte, per difetto o per eccesso, e per le frequenti contraddizioni fra la chiave segnata e le note compatibili con il B.c.

In tutte le Arie, a parte le innumerevoli note sbagliate, sono scarse le indicazioni dinamiche; a volte manca l’indicazione del movimento; le poche legature segnate sono spesso approssimative.

Quando si parla di prassi esecutiva ci si riferisce di solito al modo di eseguire e di interpretare che dovrebbe essere conforme, il più possibile, alle impostazioni stilistiche applicate per le voci e per gli strumenti nel periodo cui ci si riferisce.

Ma della ‘prassi esecutiva’ settecentesca, e cioè del modo di eseguire e di interpretare il teatro musicale di quel secolo, facevano parte, storicamente, anche i cambiamenti e gli adattamenti degli organici strumentali, per non parlare della introduzione di Arie diverse rispetto a quelle previste dalla partitura e/o dal libretto, a seconda delle disponibilità e delle necessità contingenti.

Se io, quindi, modifico ora l’organico strumentale di una o più Arie, sostanzialmente riprendo una normale consuetudine di quel periodo. Soltanto che, in questo caso, intanto non si tratta di alterazioni, che comunque allora si verificavano, dal momento che non viene tolta o aggiunta una sola nota, e poi le modifiche non nascono da necessità contingenti o da limiti esterni extramusicali, ma soltanto dalla opportunità, se non dalla necessità, di valorizzare al massimo possibile, comunque entro i limiti stilistici consentiti, il carattere e i contenuti espressivi di ciascuna situazione della partitura. In sostanza, l’unico scopo è quello di evidenziare, adeguatamente sottolineandolo,  quello che la partitura propone in quel momento, quasi sempre in maniera soltanto implicita.

In un manoscritto settecentesco, infatti, sono molte di più le cose non esplicitate di quelle scritte. Tanto più se si tratta, come nel caso di questa Didone, del manoscritto di uno o più copisti. Di solito gli autografi sono molto più ricchi di indicazioni e generalmente più precisi, anche se molto rimane sottinteso perché per prassi comunque previsto; i copisti, invece, a parte gli errori di lettura e di interpretazione dell’originale, spesso frettoloso, si limitano, quando non sovrappongono proprie scelte, a poche indicazioni e quasi sempre lo fanno in modo approssimativo.

Si può quindi affermare, per la possibilità di variare gli organici e per la carenza di indicazioni esplicite, che il manoscritto di un’Opera settecentesca rimanesse e rimanga una partitura almeno parzialmente ‘aperta’ e cioè suscettibile, come realmente avveniva allora, di modifiche e di integrazioni. Se si tengono, poi, presenti le necessità espressive e linguistiche dei meccanismi rappresentativi, questi interventi, finalizzati alla valorizzazione di particolari aspetti e situazioni sulla base delle intenzioni dell’autore comunque chiare o chiaramente implicite nell’articolazione del discorso, risultano ulteriormente giustificati.

La prima ripresa moderna della ‘Didone abbandonata’ è stata effettuata al Teatro ‘Caio Melisso’ di Spoleto nel settembre 2006,  nell’ambito della stagione del Teatro Lirico Sperimentale, con la direzione di Franco Piva e la regia di L. Gabriele Dolcini.

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ADAMO, Oratorio di Baldassarre Galuppi (Revisione: Franco Piva)

La produzione del Buranello nella musica sacra è certamente la meno studiata; io stesso, dovendo a suo tempo operare per forza di cose delle scelte di fronte all’enorme quantità di opere da rivisitare, ho deliberatamente lasciato da parte questo settore, pur così ricco e importante, con le sole eccezioni dell’Oratorio ‘Adamo’ e del “Dialogus sacer” ‘Jephte et Helcana’. Questo non significa, comunque, che non mi sia preoccupato di dare uno sguardo, almeno essenziale, ad alcune composizioni sacre e liturgiche (mi riferisco soprattutto al ricco fondo custodito presso la Biblioteca del Conservatorio “Paganini” di Genova), se non altro per rendermi conto, sempre in modo relativo sia per l’impossibilità materiale di prendere in esame tutto il materiale  sia per il mio preminente interesse orientato verso altri settori, del modus operandi di Galuppi in questo particolare genere, anche in relazione ai comportamenti stilistici nella sua produzione profana.

A seguito di questo rapido excursus, ritengo di poter esporre le seguenti considerazioni, tutte in ogni caso da confermare con analisi più puntuali e approfondite.

1)     E’ generalmente riscontrabile una certa discontinuità qualitativa: in numerosi brani risulta evidente la fretta (un fatto spiegabilissimo, data l’incredibile quantità di impegni a cui Galuppi, specialmente in alcuni periodi, doveva far fronte); in altri, al contrario, si manifesta una articolazione complessa, risultato di una approfondita ricerca tecnica e strutturale.

2)     E’ sempre presente, in ogni caso, un grande mestiere e la felice naturalezza dello spirito galuppiano: sono così costantemente presenti la solidità della struttura, la “buona condotta” delle parti, l’efficacia funzionale, la scorrevolezza dell’invenzione, la disinvoltura e la chiarezza dei movimenti contrappuntistici e armonici.

3)     Si può parlare complessivamente della configurazione di un vero e proprio stile liturgico caratterizzato dalla semplificazione della scrittura e dei rapporti dinamici (comunque sempre direttamente connessi con i suggerimenti ‘espressivi’ del testo), dall’uso relativamente frequente e intenso di procedimenti contrappuntistici (sempre senza esibizioni intellettualistiche e  sempre come mezzo di aricchimento ‘espressivo’ e funzionale), dalla presenza di una declamazione prevalentemente sillabica e dalla tendenza a rendere impersonale e asettica l’articolazione melodica, con la prospettiva di ottenere un risultato ‘ambientale’ sostanzialmente diverso da quello dei lavori teatrali e, in parte, degli Oratori (anche in questo caso, comunque, è presente la ricerca di una precisa caratterizzazione degli interventi in relazione al carattere del testo e alla destinazione delle composizioni).

Se si tiene presente che alla ‘riforma’ dei contenuti stilistici Galuppi volle accompagnare quella degli aspetti esecutivi (sotto la sua direzione il coro ha un organico stabile di 24 elementi e l’orchestra è composta da 2 flauti, 2 oboi, 2 corni, 2 trombe, 6 violini primi, 6 violini secondi, 6 viole, 4 violoncelli e 5 contrabbassi, con la possibilità di aggiungere clarinetti, fagotti e timpani e con la cura costante di inserire sia nel coro che nell’orchestra i migliori esecutori allora disponibili), gli si può senza incertezza alcuna attribuire un ulteriore importante merito, fino ad ora non sufficientemente sottolineato: quello di aver riportato la composizione e l’esecuzione di musiche liturgiche e religiose a una nuova dignità stilistica e professionale, riconquistando l’eloquente semplicità e la luminosa severità delle origini, a conclusione di un lungo e complesso ciclo durato più di due secoli.

La composizione dei 27 Oratori abbraccia un periodo che va dal 1737 (‘S. Maurizio e compagni martiri’) al 1776 (‘Moyses de Sinai revertens’): comprende, quindi, tutto il periodo centrale dell’attività produttiva del Buranello e sarebbe importante e significativo poter verificare l’evoluzione degli esiti stilistici all’interno di questo particolare settore, anche in rapporto alle parallele produzioni teatrali.

L’Adamo, su testo del P. Giovanni Granelli, è il sesto dei suoi Oratori. La prima esecuzione ebbe luogo a Roma, presso i RR.PP. della Congregazione della Chiesa Nuova, la domenica 19 febbraio 1747. Un anonimo cronista della Congregazione scriveva in quell’occasione (”Diario ordinario Num 4617. In data delli 25 Febraro 1747): “Dai PP. Della Congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri in Chiesa-nuova si tenne la sera (di domenica, prima di quaresima) in quell’Oratorio il divoto trattenimento di una nuova Composizione intitolata L’Adamo, posta in musica dal Sig. Baldassarre Galuppi, detto Buranello, cantata da quattro scelte voci, accompagnate da ottimi stromenti…il tutto con grande applauso della nobilissima udienza…; ed il concorso delle altre civili persone fu sì numeroso, che non essendo il luogo bastante più della terza parte di esse non potè avervi l’ingresso”.

Di questo Oratorio ho consultato due copie manoscritte esistenti presso la Biblioteca Marciana e quella, su cui ho basato la revisione, presso la Nazionale di Torino. Nelle due copie di Venezia quattro Arie (‘Sente quell’alma oppressa’, ‘Quell’affanno e quel dolore’, ‘No che vano e ingiusto affetto’, ‘Toglierò le sponde al mare’) hanno, rispetto alla copia di Torino, musiche diverse; il Duetto ha anche il testo diverso (‘E’ giusto Dio quel Padre’) e due Arie sono in altre tonalità (‘Amare lacrime’ è in Do Minore, ‘Con la mano onnipossente’ è in Re Maggiore); in una delle due copie veneziane manca la Sinfonia, mentre nell’altra il primo Recitativo è preceduto da una Sinfonia in tre Movimenti.

 I personaggi dell’Oratorio sono quattro: Adamo (tenore), Eva (soprano), Angelo di Giustizia (soprano), Angelo di Misericordia (soprano). Introdotto da una breve   “Sinfonia” in un solo Movimento, si articola in dodici Arie (tutte con il Da capo), tre per ciascuno dei solisti, due Duetti Eva-Adamo, un Duetto degli Angeli e un Quartetto finale: complessivamente sedici brani, oltre l’Ouverture, distribuiti con molta simmetria nelle due Parti e sempre preceduti da Recitativi secchi (l’unico breve Recitativo Obbligato è quello che precede l’Aria di Eva ‘Se al ciel miro’, nella seconda Parte).

Tutti i brani sono molto caratterizzati dal punto di vista del tipo di vocalità, della presenza strumentale, dell’articolazione ritmica, della individualizzazione tematica. Di conseguenza tutti gli interventi sono molto differenziati e, nell’insieme, costituiscono un organismo assai articolato e vario: la sostanziale tendenza del Buranello in questo lavoro è stata quella di definire e di esaltare musicalmente personalità e sentimenti, fissandone le caratteristiche dinamiche essenziali con forte incisività e con una intensa pregnanza drammatica.

Mi sembra di poter riferire all’Adamo quello che il Burney scrive a proposito di Salmi latini ascoltati a Venezia: “di dieci o dodici motivi non ve n’era uno solo che sembrasse insignificante. Ve n’erano parecchi ammirevoli…e tutto era pieno di passaggi nuovi, di fine gusto, di bella armonia e di sentimento. Gli accompagnamenti, sopra tutto, sono sempre ingegnosi e quantunque pieni, son sempre disinvolti e privi di quella specie di confusione che sperde e copre la voce…”

A parte qualche inevitabile reminiscenza soprattutto haendeliana, le idee di questo Oratorio sono in gran parte proiettate in avanti, talvolta con risultati clamorosamente anticipatori: non va dimenticato che all’epoca della sua composizione Cimarosa e Mozart non erano ancora nati, Paisiello aveva sette anni e Haydn soltanto quindici. “Molti passi di Galuppi”, scrive il Burney, “vennero certamente resi comuni….ma allora eran nuovi”.
Franco Piva

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