CIMAROSA, CLEOPATRA (revisione: Franco Piva)

Nel diluvio delle produzioni settecentesche, spesso destinate alle corti e finalizzate a determinate occasioni, è fisiologico l’oblio: celebrata l’occasione si passa a altre. Della quantità di lavori di Galuppi, Paisiello, Sarti a San Pietroburgo, attratti a turno dal favore accordato all’opera italiana e probabilmente anche dalle aspettative di compensi interessanti elargiti da Caretina II, si ricorda ben poco. Fu comunque cospicua perché la zarina che li aveva chiamati, proprio sulla produzione operistica intendeva aggiornare la vita culturale della corte all’alto livello di quella di altre corti: la francese soprattutto. Ma quella zarina, ignorante e insensibile alla musica, una volta raggiunto l’esito di una nuova produzione ne richiedeva subito un’altra e non aveva il minimo interesse a storicizzare gli eventi. Di conseguenza è normale che l’odierno interesse si acuisca a ogni riscoperta di lavori già dimenticati. All’ascolto, però, quelle riscoperte spesso non risultano tali da incoraggiarne l’inserimento nel repertorio. Molte riesumazioni portano a nuova sepoltura. Il caso di Cleopatra è diverso, un’eccezione che sembra confermare tutte le regole.
Cimarosa aveva 38 anni quando partì per San Pietroburgo e non aveva alle spalle titoli eclatanti. Non si sa bene che cosa abbia fatto in Russia, si sa solo che nel 1791 era già sulla via del ritorno (strada benefica, se di passaggio a Vienna potè produrre il suo capolavoro, Il matrimonio segreto). Fu dunque un soggiorno rapido e forse non troppo fortunato. Una cosa importante, in ogni caso, la fece, e fu Cleopatra.
Uscito di scena Metastasio, con la sua pianificata ragionevolezza di eventi e sentimenti, ai due protagonisti di una delle più grandi storie d’amore, qui narrata da Ferdinando Moretti, Cleopatra e Antonio, non restava molto di ragionevole da dire o fare. La Regina non reagisce agli eventi, si interessa esclusivamente dell’amore per il suo triumviro. Il quale è innamoratissimo ma anche lui è insensibile agli eventi. I due non si capiscono, ogni parola è presa per il suo opposto. E quando, alla fine, dopo molte promesse di morte e molti strazi dell’anima la situazione sembra volgere verso la partenza di Antonio per una guerra che si annuncia terribile, sarà proprio lei a trovare la soluzione. Partirà anche lei con lui, con lui andrà in guerra. E anzi lo aiuterà con le truppe di cui dispone. Ma il bello è proprio che non capiscano gli eventi e si dedichino esclusivamente all’amore, Difatti gli unici che comprendono gli eventi, i confidenti di lui e di lei, Domizio e Arsinoe, li comprendono perché non amano. L’amore come missione o destino, assoluti entrambi. La storia di Roma, dell’Italia e del mondo è sul punto in cui potrebbe capovolgersi: se Antonio non partisse o se Cleopatra non lo aiutasse…Ma le cose dell’opera si risolvono sempre a favore della storia che raccontano, o almeno negli esiti che conosciamo.
Presentata nel terribile anno 1789 Clepatra è un’opera a quattro personaggi ed è un’opera straordinaria solo per quanto riguarda l’aspetto musicale. Il libretto non fa nulla per raggiungere una drammaturgia di eventi, il che non è un’eccezione nella librettistica del tempo, ma concentra tutto sul rapporto tra i due amanti, senza ulteriori conflitti, e questo è meno consueto. Di conseguenza la partitura di Cimarosa segue la stessa strada e concentra a sua volta tutta la sua attenzione sul rapporto amoroso. Anche le danze e i cori non aspirano che a commentare l’inazione e rinunciano deliberatanmente a farcire la debole trama di movimenti o tessiture che potrebbero indebolire l’intensità dei sentimenti. E’ un’intensità che si manifesta nelle arie e nei due bellissini insiemi (il duetto che chiude il primo atto e il quartetto che conclude l’opera). E’ raro trovare una serie di arie così belle in un’opera sola. E non è solo la qualità espressiva a farle belle, è anche il taglio bipartito, moderno, insofferente di schemi formali precostituiti e indifferente affatto alla dittatura dell’aria col da capo. Quasi sempre altissime nella tessitura, spesso molto esigenti nelle impervie fioriture (quelle di Cleopatra e quella di Domizio) offrono un campionario di affetti di eccezionale varietà. E se in generale un’opera del settecento vale se valgono le sue arie qui abbiamo anche altro: la bellezza dei cori e, caso rarissimo, dei recitativi. Il sistema usato per questi, di iniziarli come secchi per poi volgerli in accompagnati, dice che l’interesse di Cimarosa per questi luoghi tradizionalmente privi di qualità musicali (e di conseguenza falcidiati senza pietà) è affine a quello per le arie. Non raccontano soltanto la storia ma la commentano con intensità espressiva degna delle arie, spesso con l’aiuto di ariosi.
Curiosa anche la Sinfonia, apparentemente costruita su materiali irrelati (a parte l’insistenza anche eccessiva su un motivo in Fa maggiore che compare ben quattro volte) è in realtà una miniera di spunti che troveranno sviluppo nelle scene successive. E sono molto belle perfino le danze, solitamente usate per riempire i vuoti e per avere qualche tratto di sfarzo in più.
Da quanto si è detto è inevitabile parlare di capolavoro. Certo, ogni capolavoro del genere deve passare attraverso una revisione critica. Franco Piva si è basato su un autografo recuperato in America. L’originale in tre atti era stato ridotto a due dallo stesso Cimarosa per non si sa quale occasione. E’ questa l’edizione di cui si è avvalso Piva, il cui intervento (legature, indicazioni dinamiche e agogiche, interpretazione delle cancellature, completamento del Finale, evidentemente mutilo, realizzazione del basso continuo) è servito a rendere agile e correttamente eseguibile la partitura.

Michelangelo Zurletti

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