LA ROMANZIERA E L’UOMO NERO di Gaetano Donizetti (revisione: Franco Piva)

GAETANO DONIZETTI
LA ROMANZIEREA E L’UOMO NERO (Revisione: Franco Piva)

LA VICENDA
Idea dell’azione

Il Conte ha una figlia, Antonina, zitella e romanziera, e una nipote, Chiarina, giovane e sbarazzina.
Antonina rifiuta il partito che il padre le propone: Carlino, figlio del fattore Tommaso, impiegato di banca. D’altra parte Carlino non ama Antonina, ma ama invece Chiarina, la quale pensa a tutt’altro.
Antonina scrive un suo romanzo: l’Uomo Nero, il cui protagonista è l’eroe romantico che la romanziera vorrebbe per sé.
Filidoro, nobile spiantato, si finge coiffeur per entrare in casa del Conte e rivedere Antonina, che sarebbe per lui un ottimo partito. Lei vorrebbe fuggire con lui, vivere nei boschi, solitaria e ispirata; ma lui ha altri progetti; finge di stare al gioco e poi la lascia.
Chiarina, dal Conte destinata al suo amico Fedele, non più giovanissimo, è in realtà interessata a Nicola, nipote di Tommaso, un agronomo piuttosto noioso. Questi, però, vorrebbe una donna più posata di quanto Chiarina non sia. Tommaso le insegna come conquistare il cuore di Nicola. Questi spia la lezione di seduzione, ma cade dal nascondiglio e finisce nella carbonaia, dalla quale emerge tutto nero. E’ l’Uomo Nero, e spaventa Chiarina. Intanto la ragazza declina la sua filosofia a morosa a Filidoro, che pende dalle sue labbra.
Antonina e Nicola, che si finge momentaneamente un eroe romantico, progettano una fuga, non senza dimenticare alcuni gioielli. Tommaso e Trappolina li aiutano nei preparativi. La fuga viene scoperta. Antonina chiede perdono: d’ora in poi non penserà più né a romanzi né a fughe.
Il padre perdona e dichiara di essere stato in gioventù un parrucchiere. Anche Filidoro si svela: egli è il Conte Calamai.
Ma intanto Antonina ha deciso: nonostante lo scarso interesse per la sua attività di bancario, sposerà Carlino. Il Conte, già parrucchiere, e Filidoro, parrucchiere per amore, la pettineranno insieme per le nozze.

“Un ‘Serio’ Scherzoso”, di Michelangelo Zurletti
E’ difficile che un testo vada completamente perduto, soprattutto nel caso di un’Opera buffa più volte rappresentata. La perdita di un testo è di solito parziale e consente un lavoro di restauro e di completamento di quel che resta. Nel caso de ‘La Romanziera e l’Uomo nero’ la perdita delle parti parlate è totale. Quelle parti dovevano essere anche abbastanza lunghe, com’era tipico del ‘Vaudeville’, non foss’altro per consentire alle parti cantate di avere un senso teatrale. Il Recitativo secco dell’Opera buffa è una cosa, la recitazione dell’Opéra-comique un’altra; altra cosa ancora la commedia che si fa spazio tra i numeri musicali d un ‘Vaudeville’.
Tanto per citare il problema principale, mi trovavo con un ‘Vaudeville’ che nel titolo citava una ‘Romanziera e un Uomo nero’ che nei testi cantati non compaiono mai, non solo per citazione diretta ma neppure per allusione. Per di più, nel Rondò finale due protagonisti rimandano alla loro professione di parrucchieri senza che mai prima vi avessero accennato, e uno di questi è il Conte: e la sua condizione, soprattutto in teatro e in particolare nel ‘Vaudeville’, tende a ignorare professioni così materiali. Ancora: i numeri musicali sono tutti logicamente sganciati uno dall’altro e passano allegramente di palo in frasca.
Non restava che frugare nei lavori di Scribe, alla ricerca, se non del testo perduto, di analogie utilizzabili. Uno di questi, suggeritomi da Sabina Pozzi, “L’homme noir”, presenta sì un personaggio che appare anche nel nostro titolo ma in un contesto non recuperabile. Si accenna anche a un’attività di scrittura, ma è affidata a un giovanotto e non a una signora, e per di più si tratta di un commediografo, non di un romanziere. Un altro, “Le coiffeur et le perruquier”, parla di quelle benemerite attività, ma con personaggi che non potevano essere ospitati nell’Opera di Donizetti.
Bisognava, dunque, inventare e cercare di cucire in qualche modo le situazioni: tenendo comunque presenti i due lavori di Scribe. Da questi derivano molte battute del nuovo testo, ora trasportate direttamente, ora adattate, ora camuffate.
Ho ritenuto anche di dover avvicinare il testo al pubblico al quale è destinato. Se i nomi dei personaggi di Scribe sono stati italianizzati da Donizetti, ho voluto regionalizzare anche la loro attività e perfino accostare la loro vita al destinatario rodigino.
Come si può intuire, il mio è stato un lavoro esattamente contrario a quello dei filologi e anzi perfettamente arbitrario. Non lontano, comunque, da quel gusto per la ‘parodia’, per il travestimento delle situazioni, per il furto delle idee che animava la pittoresca attività dei commediografi e dei librettisti.

Un po’ di storia, di Sabina Pozzi
Gaetano Donizetti, dopo il successo milanese dell’ ‘Anna Bolena’ (Teatro Carcano, 26 dicembre 1830), nel febbraio del 1831 passa per Roma (dove i teatri sono chiusi a seguito dei moti rivoluzionari che coinvolgevano lo Stato pontificio) e torna a Napoli per onorare il contratto con l’impresario-principe Domenico Barbaja, contratto con il quale si impegnava a comporre 12 Opere nuove nell’arco di 3 anni, dietro compenso di 200 ducati mensili, e assumeva la direzione dei Reali Teatri per 50 scudi al mese.
La primavera e l’estate di quell’anno vengono dunque trascorsi nella rapida stesura di tre lavori a carattere buffo: c’è la semiseria ‘Francesca di Foix’, prevista per il San Carlo il 30 maggio in occasione dell’onomastico del re Ferdinando II di Borbone, e c’è ‘La Romanziera e l’uomo nero’ che va in scena al Teatro del Fondo il 18 giugno.
Per entrambi i lavori il testo è di Domenico Gilardoni, il librettista con cui Donizetti collaborerà nei suoi quattro anni di più intensa attività. Con Gilardoni, suo coetaneo, Donizetti instaura un rapporto di collaborazione diretta venendo così in contatto, grazie al librettista, con la spettacolarità e i meccanismi di un certo teatro popolare francese (e proprio francesi saranno le fonti del libretto della Romanziera). I successi e il progresso nella carriera che ottiene in quegli anni sono ascrivibili in parte anche ai meriti dei libretti del Gilardoni, di certo più felici degli sgangherati testi di Leone Andrea Tittola e di Giovanni Schmidt.
Il terzo lavoro in programma è ‘Fausta’ (Teatro San Carlo, 12 gennaio 1832), che rimane però incompiuta per l’improvvisa e prematura scomparsa del librettista: Donizetti provvederà a completare di sua mano il terzo Atto.
Per il libretto della Romanziera Gilardoni trae spunto da due commedie andate in scena a Parigi rispettivamente nel 1820 e nel 1824: si tratta de “L’Homme noir” di Eugène Scribe e Jean-Henry Dupin e di “Le coiffeur et le perruquier” sempre di Scribe in collaborazione con Mazères e Saint Laurent. Su queste fonti inventa un divertissement pienamente calato nel contesta della querelle italiana fra classici e romantici. Un libretto che, inserito nel filone della satira delle fantasticherie sentimental-romantiche allora tanto alla moda, ruota attorno al mondo astrattamente poetico della giovane Antonina che sogna il proprio ideale di vita accanto ad un inesistente ‘uomo nero’, l’uomo del mistero, secondo le notturnali proposte romantiche. E naturalmente il suo compagno ideale non può essere quel Carlino, impiegato di banca, che il Conte suo padre vuole darle come sposo. Alla fine la fanciulla, presa in giro dai suoi stessi conoscenti, deve ammettere che la poesia non coincide con la realtà e rinuncia alle evasioni romantiche per tornare ad occupazioni più consone e ad un prevedibile matrimonio.
Donizetti si trovò ad utilizzare per il pur breve ed esile intreccio pseudo-sentimentale una consistente ed ottima compagnia di canto: vi figuravano – tra i 3 soprani, 2 tenori, 3 beassi, un buffo, oltre al solito servitore – cantanti del calibro di Luigia Boccabadati (Antonina), Antonio Tamburini (Filidoro), Gennaro Luzio (Tommaso) e Marietta Gioia Tamburini (Chiarina). Pingue compagnia che determinò quasi una sorta di appesantimento della mobilità scenica della vicenda, nonostante le agili e caricaturali risorse rossiniane a cui Donizetti ancora ricorse.
Rossini, infatti, è chiaramente presente come oggetto di parodia: in particolare con la canzone del gondoliere del suo ‘Otello’. Oltre a ciò Donizetti ricorse ad una sorta di autoparodia utilizzando per la Romanziera alcuni brani della partitura di una sua Opera seria precedentemente scritta sempre da Gilardoni, ‘Il Paria’ (Teatro San Carlo, 12 gennaio 1829): in particolare la melodia del quartetto conclusivo de ‘Il Paria’ è impiegata nella parte di Antonina nel terzetto “Dopo tante e tante pene” che precede il Rondò finale. Una consuetudine, questa dell’autocitazione, giustificata anche dai ristrettissimi tempi che intercorrevano tra la composizione di un’Opera e l’altra.
Fu proprio l’adagiarsi un po’ pigro al formulario d’uso, cui Donizetti finì appunto per rivolgersi, a determinare l’accoglienza cordiale ma non entusiastica de ‘La romanziera e l’uomo nero’; rappresentata, infatti, il 18 giugno del 1831, venne sostituita, dopo l’unica replica del 20, con ‘Il ventaglio’ di Pietro Raimondi su libretto del solito Gilardoni. L’impresario Barbaja la tolse di scena vista la relativa fortuna.

La partitura e la revisione di Franco Piva
Posso capire perché ”La Romanziera e l’uomo nero non abbia avuto allora successo: si trtta di un lavoro ‘equivoco’ e complesso, due caratteristiche che certamente non favoriscono l’immediatezza e l’efficacia del rapporto con il pubblico di un’Opera che vuole essere ‘comica’
E’ ‘equivoco’ perché non è decisamente e chiaramente caratterizzato in senso buffo, cioè con una vicenda ben definita, con tutti gli ingredienti dell’Opera buffa tradizionale e con una precisa impostazione e articolazione drammaturgia e musicale in questa direzione; è ‘complesso’, perché è pieno di reminiscenze e di invenzioni, le une e le altre presentate ed elaborate con una impostazione prevalentemente contrappuntistica (i sette numeri prevedono la partecipazione sempre di più solisti). Sicuramente la forte dimensione contrappuntistica contribuisce in modo decisivo a ‘intorbidire’ la normale presentazione di situazioni e di vicende.
Ad accrescere l’equivocità c’è poi la figura di Antonina, la romanziera, la quale crede veramente, sino alla fine, a quello che pensa e che prova, determinando situazioni ‘serie’ di intensa espressività romantica.
E c’è, infine, la decisa rossinianità dell’Opera.
Credo che la forzata rapidità della composizione sia diventata, in queta caso come i altri, un forte stimolo: Donizetti, infatti, è stato costretto a sfruttare e a mettere insieme tutte le sue reminiscenze e, quando non bastavano, a inventare, con felicissime intuizioni, che più tardi riprenderà (per esempio, ne ‘L’Elisir d’amore’), qualche nuova situazione. Ne è uscito un concentrato di formule vecchie e nuove dello stile giocoso e di quello comico, arricchito, però, da una conduzione quasi sempre intensamente contrappuntistica (bene appresa nei 62 esercizi dal 1815 1l 1817).

Di quest’Opera esistono alla Biblioteca del Conservatorio di Napoli due partiture manoscritte: una autografa, dal n. 1 (senza Preludio) al n. 6, l’altra di un copista, con un brevissimo Preludio e un Rondò finale (n. 7). Esiste, inoltre, una versione stampata per canto e pianoforte.
Non si può non domandarsi: come mai esistono due partiture manoscritte e addirittura uno spartito stampato di un’Opera che ha avuto soltanto due rappresentazioni? E come mai nel manoscritto del copista esistono un Preludio e un Rondò finale del tutto assenti nell’autografo?
Per spiegare l’esistenza delle due partiture l’ipotesi più verosimile può essere la seguente: l’autografo è molto difficilmente utilizzabile per l’esecuzione (è pieno, infatti, di abbreviazioni, richiami, tagli e indicazioni sommarie: soltanto l’autore poteva orientarsi con la necessaria sicurezza) ed era quindi indispensabile che un diligente copista ‘traducesse’ con chiarezza le indicazioni dell’autore (forse la ‘prima’ è stata diretta dallo stesso Donizetti, mentre era previsto che le repliche venissero dirette da un altro, magari dall’estensore del secondo manoscritto). Il Preludio è stato sicuramente inserito dal copista: l’autografo, infatti, inizia direttamente con l’introduzione del n. 1; in quanto al Rondò finale, ritengo, dato che nell’autografo la conclusione dell’Opera rimane aperta, che Donizetti abbia consegnato al suo collaboratore gli appunti per l’ossatura del pezzo, affidandogli il compito della realizzazione completa della partitura (in quest’ultimo brano le melodie, che sono sicuramente donizettiane, sono sostenute da un’orchestrazione soltanto essenziale).
Mentre, quindi, è inequivocabile il fatto che il Preludio non è stato previsto da Donizetti, l’assenza nell’autografo del Rondò finale quasi sicuramente può essere considerata una conseguenza della fretta, anche se non si può dire con certezza che dovesse comunque essere previsto per la conclusione dell’Opera.
Pertanto, nella mia revisione, ho tolto il Preludio e ho inserito il n. 7.

Questa voce è stata pubblicata in Testi. Contrassegna il permalink.

I commenti sono chiusi.